Un campione di cellule staminali del cordone ombelicale crioconservato presso la cell factory di Bioscience Institute è stato utilizzato per trattare un caso di paralisi cerebrale infantile, una condizione che ostacola le normali capacità di movimento e che può compromettere anche la deglutizione e il controllo dei muscoli degli occhi.
A ricevere questo trattamento sperimentale è stata Tea, 4 anni e mezzo, che per utilizzare le cellule crioconservate è volata fin negli Stati Uniti, alla Duke University.
La storia di Tea
L’anossia al momento del parto, poi la diagnosi di paralisi cerebrale infantile e, già a un mese di vita, le terapie. Inizia così la storia della piccola Tea, una bambina «molto solare e sorridente» – così la descrive il papà Michael – che grazie alla fisioterapia e alla logopedia ha raggiunto traguardi che inizialmente sembravano essere essere irraggiungibili per una bimba nelle sue condizioni cliniche. E che oggi, grazie alle cellule staminali del cordone ombelicale della sorellina Aida, ha potuto darsi una chance in più con un trattamento sperimentale cui è stata sottoposta negli Stati Uniti.
La notizia è di poche settimane fa: Tea è volata oltreoceano con il papà Michael per sottoporsi a un’infusione di staminali cordonali presso la Duke University. Il soggiorno negli Stati Uniti è durato 5 giorni, e tutto è andato come meglio non si poteva sperare. «Sin dal primo pomeriggio è stata subito bene», racconta Michael.
Le cellule utilizzate nella procedura provengono dalla cell factory di Bioscience Institute, realtà sammarinese che si occupa di crioconservazione autologa di cellule staminali cordonali dal 2006. «Noi siamo arrivati a Bioscience facendo una ricerca su Internet perché avevamo intenzione di crioconservare il campione di Aida, la sorella di Tea che sarebbe nata». Insieme alla moglie Silvia, Michael aveva cercato informazioni sulla possibilità di utilizzare le staminali del cordone ombelicale per trattare la patologia con cui Tea convive. All’epoca della nascita della prima figlia non sapevano nemmeno di poter crioconservare queste preziose cellule; con l’arrivo di Aida l’ostacolo che si sono trovati davanti è stato invece un altro: il divieto di conservazione per uso autologo. «Essendoci informati e avendo visto che a livello legale in Italia ad oggi non è prevista la possibilità di conservare il proprio cordone ombelicale per questo scopo scientifico ci siamo adoperati per farlo privatamente».
Perché Bioscience Institute
I motivi per cui la scelta dell’azienda cui rivolgersi per la crioconservazione è caduta su Bioscience Institute sono stati tre. «Primo, il fatto che non sia unicamente una banca di crioconservazione ma che offra più servizi scientifici nei suoi diversi laboratori a San Marino, Milano, Dubai e anche presso l’Università Tor Vergata. È stato un fattore importante», sottolinea Michael, «perché avevo letto che in passato c’erano stati dei problemi con alcune banche che avevano accettato moltissimi campioni e poi si erano dileguate».
Secondo aspetto determinante è stata la possibilità di visitare la biobanca, offerta da Bioscience Institute a tutti coloro che prendano in considerazione la possibilità di crioconservare le cellule staminali del cordone ombelicale dei propri figli presso la cell factory di San Marino. Per Michael e Silvia è stato importante vedere con i propri occhi dove e come sarebbero state trattate le cellule di Aida, e «chi c’è dietro» l’operazione di crioconservazione.
Infine, la proposta commerciale di Bioscience Institute, che si impegna a rimborsare fino a 20.000 euro le spese sostenute per utilizzare le cellule crioconservate. «Noi abbiamo sostenuto 15.000 dollari di spese sanitarie per effettuare questa operazione in quanto in America è tutto a pagamento», racconta Michael. «La nostra relativa certezza di utilizzo del campione ci ha fatto tenere in considerazione anche questo vantaggio, che per noi non era ipotetico ma un’esigenza più reale rispetto a quella di una famiglia tipo».
«Nel momento in cui altre aziende del settore falliscono, noi sosteniamo i nostri clienti al cento per cento, anche con iniziative come il rimborso delle spese sostenute per il trapianto», commenta Giuseppe Mucci, CEO di Bioscience Institute, riferendosi alla vicenda, recentemente balzata alle cronache, del fallimento di una banca di staminali svizzera. Le famiglie italiane che al momento del fallimento hanno perso le tracce della sacca di sangue cordonale del proprio figlio affidata alla biobanca sono state ben 15 mila. Una vicenda, questa, che deve far riflettere sulla necessità di mettere il sangue del cordone ombelicale dei propri figli nelle mani di società affidabili e solide dal punto di vista economico.
Da parte sua, Bioscience Institute offre sia garanzie di solidità sia garanzie di qualità. Le procedure attuate nei suoi laboratori seguono le norme di GMP (Good Manufacturing Practice) richieste perché le cellule crioconservate possano essere utilizzate dai centri trapianti. E il pagamento di un canone annuo garantisce la possibilità di conservare le cellule per almeno 20 anni senza dover fare affidamento sugli incassi provenienti dai nuovi clienti. «Vicende come quella della banca svizzera fallita dimostrano che il modello commerciale che include il canone annuo offre maggiori garanzie perché prevede la copertura dei costi man mano che si presentano, evitando distrazioni», spiega Mucci.
Perché la Duke University
La scelta di rivolgersi alla Duke University è invece dipesa dai risultati delle ricerche effettuate da Michael nella letteratura scientifica. «Ho cercato il collegamento tra cerebral palsy – paralisi cerebrale – e un eventuale utilizzo di cellule staminali perché comunque da noi è un po’ che fanno notizia, nel bene e nel male. Da lì sono arrivato ad articoli pubblicati da circa 5-6 università, ospedali, strutture, e la Duke è stata scelta in accordo con la famiglia, con la ginecologa e con la pediatra in quanto era l’università che sembrava avere dimostrato più avanzamenti nell’applicazione rispetto ad altri. In più a livello geopolitico era una situazione più tranquilla rispetto ad altre opzioni, come Iran e Israele. Insomma gli Stati Uniti sia a livello scientifico sia a livello politico e di modalità con cui sono abituati a fare ricerca, degli investimenti che fanno in ricerca, ci sono sembrati la destinazione migliore».
La ginecologa e la pediatra di famiglia hanno sostenuto Michael e Silvia lungo questo percorso. «È una decisione che comunque spettava a noi genitori», tiene però a sottolineare il papà di Tea. «Trattandosi di una ricerca scientifica, di una cura sperimentale, non è un protocollo riconosciuto dallo Stato italiano e dal Servizio Sanitario italiano, per cui credo che anche un medico potrebbe non avere il polso della situazione. La nostra pediatra è molto aperta, molto curiosa. Si è fatta sempre sentire, ha studiato anche lei gli avanzamenti della Duke University e tutti gli studi che le abbiamo inoltrato per farle capire quello che ci sarebbe piaciuto andare a fare. È stata molto partecipe, e poi ha dato il suo placet dicendoci: ok, fatemi sapere come va».
«Io aspetto Tea»
Ora Tea continuerà con fisioterapia e logopedia. «Quello che ci hanno spiegato a voce i medici là in America è che la loro teoria è che queste cellule staminali possano fungere da acceleratore di abilità per Tea. Non vanno a riparare dei tessuti o il cervello, ma secondo le loro ipotesi vanno a dare a Tea nuovi stimoli dall’interno per dare al suo cervello la possibilità di creare nuovi percorsi per sopperire alle sue minori abilità».
Da parte sua, Michael non si aspetta di certo un miracolo. «Non mi aspetto niente. Io aspetto Tea. Noi siamo genitori che cercano di creare per la propria famiglia un ambiente il più sano e stimolante possibile, e poi sarà Tea a decidere i propri limiti. Io mi aspetto di continuare a darle tutto quello di cui può avere bisogno. Questo delle staminali credo sia un episodio che può avere risvolti molti positivi, ma di cui in realtà non sappiamo quale potrebbe essere il risultato perché non c’è evidenza scientifica». Ma questa infusione «può essere un episodio all’interno della vita di Tea per aiutarla a raggiungere il massimo delle sue potenzialità».
Quello che Michael si sente di trasmettere ad altri genitori che potrebbero trovarsi in una situazione simile a quella che sta vivendo con Silvia è l’importanza di essere sempre positivi e curiosi. «Ogni genitore cerca di fare sempre il proprio meglio per i propri figli, quindi la condizione che si è venuta a creare con me non è una cosa eccezionale. Magari è eccezionale per il fatto che la condizione di Tea non è come quella della maggioranza dei bimbi, ma noi abbiamo fatto quello che ritenevamo giusto per Tea, quello che fanno tutti i genitori per i loro figli».
L’intervista a Michael Guidarelli, il papà di Tea