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Fortunatamente si tratta di un tumore raro, ma non c’è dubbio che il rischio di sviluppare un linfoma anaplastico a grandi cellule (Anaplastic Large Cell Lymphoma, ALCL) sia associato all’uso delle protesi al seno testurizzate. Lo ha ribadito nelle scorse settimane il Comitato Scientifico sui Rischi per la Salute della Commissione Europea, lo Scheer, allertato circa le informazioni diffuse attraverso il sito del Ministero della Salute italiano.

Sulle pagine web del Dicastero era infatti possibile leggere che secondo lo Scheer non esistono prove scientifiche del legame tra lo sviluppo dell’ALCL e le protesi mammarie. Il Comitato, invece, è giunto ormai da mesi alla conclusione opposta: il rapporto è più che probabile. Questa incongruenza ha portato la Commissione Europea a richiedere una rettifica di quanto riportato sul sito del Ministero. Anche la stampa nazionale è tornata ad approfondire l’argomento, ribadendo attraverso la voce degli esperti del settore che il legame tra protesi mammarie e il linfoma anaplastico a grandi cellule è reale.

Meglio, quindi, rinunciare all’idea di rimodellare il proprio seno, magari aumentando il volume di qualche taglia? In realtà l’alternativa all’uso delle protesi mammarie esiste, è sicura, efficace e porta con sé dei innegabili vantaggi. Si tratta delle cellule staminali espanse, prelevate dal grasso accumulato nei “punti critici”, moltiplicate in laboratorio e iniettate nel seno per ottenere l’effetto desiderato.

Il linfoma anaplastico a grandi cellule associato a protesi mammarie

Come accennato, di per sé l’ALCL è un tumore raro; si tratta di una forma di cancro che colpisce specifiche cellule del sistema immunitario (i linfociti T) e che può insorgere a qualsiasi età, ma che è più frequente fra i bambini e i giovani adulti. Altro dato interessante è che gli uomini sono più propensi a svilupparlo rispetto alle donne; tuttavia, sono proprio le donne, in particolare quelle che ricorrono all’impianto di protesi mammarie, a correre un rischio aumentato di una particolare forma di questo tumore.

Infatti, come spiegato dallo Scheer nel suo rapporto definitivo sulla sicurezza delle protesi al seno relativamente al rischio di sviluppare il linfoma anaplastico a grandi cellule, è possibile che in prossimità di una protesi mammaria si sviluppi un linfoma che proprio per la sua associazione con la protesi viene detto “linfoma anaplastico a grandi cellule associato a protesi mammarie” (Breast Implant-Associated Anaplastic Large Cell Lymphoma, BIA-ALCL). Il tumore può comparire da pochi a più di 20 anni dopo l’impianto delle protesi. La diagnosi richiede un’analisi del liquido accumulato attorno alla protesi o una biopsia, e la terapia standard consiste in un intervento chirurgico. Tumori in fase più avanzata possono rendere necessari ulteriori trattamenti, come la chemioterapia, la radioterapia o il trapianto di cellule staminali.

Non tutte le protesi al seno sono associate al rischio di sviluppare il BIA-ALCL. A destare preoccupazioni sono quelle testurizzate, o “ruvide” – un tipo di protesi il cui uso è spesso preferito a quello delle protesi lisce sia in Italia sia, più in generale, in Europa. Gli esperti sottolineano che, trattandosi di un tumore raro, è difficile stabilire con precisione quanto sia elevato il rischio di BIA-ALCL. Non solo, ad oggi non è possibile dire l’ultima parola nemmeno sui meccanismi che portano al suo sviluppo. Sembra ormai chiaro che ad entrare in gioco sia la comparsa di un’infiammazione. Non si sa però se a scatenare questa infiammazione sia lo sfregamento sulla superficie delle protesi, il rilascio di materiale dalle protesi stesse o una contaminazione batterica. Alcune componenti delle protesi potrebbero indurre delle reazioni avverse nell’organismo, e non è da escludere nemmeno l’ipotesi di una predisposizione genetica allo sviluppo del BIA-ALCL.

Le prove del legame tra protesi al seno e ALCL

Per valutare l’esistenza di un legame tra protesi al seno e ALCL lo Scheer ha analizzato la letteratura scientifica, includendo nelle sue analisi tutti gli studi pubblicati tra il primo settembre 2016 e il 30 aprile 2020 e le pubblicazioni più rilevanti apparse al di fuori di questo periodo. In totale sono stati presi in considerazione 605 articoli, dai quali è emerso un livello di evidenza “moderato” per la relazione di causa-effetto tra le protesi ruvide e il linfoma anaplastico a grandi cellule. Sulla scala di valutazione utilizzata dallo Scheer, un livello moderato corrisponde al quarto su una scala crescente di cinque. In questo contesto, quindi, “moderato” non significa “contenuto”, anzi: è un livello di gravità inferiore solo al più elevato possibile (definito “forte”).

La conferma che si tratti di un legame significativo è arrivata anche da un’intervista rilasciata a Salute di La Repubblica da Fabio Santanelli di Pompeo, docente di Chirurgia Plastica dell’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma. Secondo Santanelli di Pompeo la correlazione tra protesi testurizzate e ALCL è “pressoché certa”: nel 2017 il rischio calcolato per le donne con protesi al seno è risultato circa 67 volte maggiore rispetto a quello per la popolazione generale; nel 2020 è aumentato; e per le donne con protesi “ruvide” è ancora più elevato.

L’esperto ha aggiunto che per tumori scoperti da così poco tempo, com’è il BIA-ALCL, è quasi impossibile avere un livello di certezza maggiore rispetto a “moderato”. Un rischio per cui esistano prove di questo livello deve essere preso in seria considerazione da medici e pazienti

Le alternative alle protesi al seno

Oggi chi vuole evitare il rischio di BIA-ALCL ha a disposizione delle valide alternative all’impianto di protesi al seno. L’approccio in grado di garantire i migliori risultati possibili associati ai livelli di sicurezza più elevati e al minor rischio di complicanze è basato sull’uso delle cellule staminali ottenute dal tessuto adiposo (ADSC, Adipose-Derived Stem Cells).

Questo approccio porta con sé un doppio vantaggio: donare nuova forma al seno e ridurre i depositi di grasso indesiderato. Infatti le ADSC possono essere prelevate dal grasso in eccesso della paziente (per esempio quello accumulato a livello dell’addome, dei glutei o delle cosce). Dopo la purificazione, le staminali vengono moltiplicate in laboratorio, in modo da ottenere le dosi ottimali per il trattamento di aumento e/o rimodellamento del seno. Il trattamento è quindi diverso rispetto ai più classici trapianti di grasso e di frazione vascolare stromale (Stromal Vascular Fraction, SVF), che non prevedono l’isolamento delle staminali seguito dalla loro espansione.

Studi condotti da Bioscience Institute hanno dimostrato che, quando vengono iniettate in concentrazioni adeguate, le ADSC espanse evitano effetti collaterali come la necrosi (morte) del tessuto adiposo trapiantato (e quindi la riduzione del volume ottenuto dopo l’intervento) e la formazione di cisti. Il trattamento consente di ottenere aumenti del volume del seno significativi e duraturi.

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Fonti

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